L'ultimo addio a Olga Kamenskaia

Sono accorsi in tantissimi, a Cunardo, paese del Varesotto dove, a poco più di 400 metri di quota, quando la neve manca e le temperature lo consentono, funziona un centro fondo con pista innevata artificialmente, a rendere l'estremo saluto a Olka Kamenskaia, che qui viveva da diversi anni. L’ex direttore agonistico Vanoi, che le aveva aperto le strade della nazionale, le azzurre con l’allenatore Pizio, in partenza per la Val Senales, che non hanno voluto mancare a quest’ultimo incontro con la compagna di fatiche, il presidente delle Alpi Centrali Angelo Sormani con il responsabile zonale del fondo Barzasi, tecnici e atleti che l’avevano conosciuta, i ragazzini dello Sci Club nella divisa sociale come i loro dirigenti che hanno portato a spalle il feretro dal Centro Fondo dove si allenava fino alla chiesa parrocchiale dove è stata celebrata la messa. Qui Olga era di casa: aveva sposato Piero Maganza, personaggio noto per un buon passato da ciclista, e gareggiava per lo Sci Club Cunardo dopo un anno con le Fiamme Oro. Naturalizzata italiana, si era guadagnata con i denti un posto nella nazionale azzurra nella quale lei, specialista della tecnica classica e delle lunghe distanze, avrebbe potuto interpretare un ruolo determinante anche in funzione della staffetta che, pure nei momenti di maggior fulgore, ha quasi sempre denunciato qualche problema nelle due frazioni a passo alternato.

In nazionale l’aveva chiamata Sandro Vanoi nel 1998 quando, con il matrimonio, era divenuta cittadina italiana tutti gli effetti. Aveva ottenuto i risultati e meritava il posto. Determinanti, sotto l’aspetto tecnico, erano stati i rapporti sempre più ottimistici dell’allenatrice della squadra femminile, Laura Bettega, che ne aveva costantemente seguito i progressi e valutato le potenzialità, mentre a superare certe pastoie burocratiche l’aveva aiutata Manuela Di Centa, della quale era diventata amica. Laura e Manu, malgrado gli impegni e la distanza, le sono state particolarmente vicine quando la sfortuna ha cominciato a prenderla di mira e l’hanno assistita come se fosse una di famiglia negli ultimi mesi di vita, quando la situazione si è aggravata per quel male incurabile che due interventi chirurgici e tutte le possibili cure del caso non sono riusciti a debellare. Un male allocato dietro lo sterno. Sembrava un sarcoma benigno, ma si è rivelato un sinovialsarcoma, tumore rarissimo e maligno, contro il quale non ci sono né interventi né cure risolutive. Un male al quale Olga, ha cercato di reagire con ogni mezzo, riprendendo a muoversi e ad allenarsi non appena ultimava un ciclo di cure e le forze glielo consentivano. Aveva dedicato tutta la sua vita allo sport, che aveva intrapreso fin da piccola, e confidava nell’attività sportiva come stimolo per rimettersi in salute. Dopo 9 ore e mezzo di intervento e tre giorni nell’unità coronarica, non appena il chirurgo l’ha invitata, se ce la faceva, a muoversi con le proprie forze, ha cominciato subito a girare con la carrozzella. Spingeva con le proprie braccia e il marito la seguiva per il corridoio con l’apparecchiatura della fleboclisi. Un recupero impressionante, da incoraggiare anche i più prevenuti e in particolare quei pazienti che avevano il terrore di sottoporsi ai ferri del chirurgo.

Una carica di energia che pareva impossibile in questa ragazza sottile come un giunco, 173 cm di altezza per poco più di 50 di peso, ma dalla volontà indomabile. Sembrava energia psicologica e caratteriale più che fisica quella che sprigionava in gara, in allenamento ma anche nella vita di tutti i giorni, che malgrado tutte le disgrazie che le sono capitate, ha sempre affrontato con il sorriso sulle labbra anche se l’hanno messa a dura prova, condizionandone i risultati e penalizzandola nelle sue aspirazioni.

In Italia ci è venuta a 20 anni e ci è restata. Nata il 10 gennaio 1972, era considerata una delle promesse del fondo sovietico. Militare di carriera, responsabile del poligono di tiro malgrado la giovane età. Nazionale juniores, il che la dice tutta sulle sue possibilità, considerata la scrematura che si registra in quel Paese per raggiungere posizioni di vertice in uno sport, come il fondo, che annovera ancora oggi milioni di praticanti. Piero Maganza, buon ciclista dilettante che aveva avuto spesso modo di scontrarsi con Saronni e appassionato di fondo, nell’aprile 1992 l’aveva conosciuta a Murmansk dove si era recato con un gruppo di fondisti dello Sci Club Cunardo. L’hanno invitata a venire da noi per le gare estive di skiroll, di cui era una specialista. A luglio è arrivata a Cunardo con Devjatiarov e altri sovietici, alla caccia di ingaggi e di risultati. Gli altri sono tornati in patria, lei è rimasta qui. Fortissima in salita e dove erano necessarie doti di resistenza, ha vinto un sacco di gare podistiche e anche di mountain bike e non solo di sci o  skiroll; quando la pendenza si impennava e la corsa si inaspriva, lei apriva il gas e si involava. Soltanto una grande Belmondo è riuscita a batterla in una memorabile edizione del Superoll del Cervino.

Alcune delle maggiori granfondo portano la sua firma: Sgambeda 1993, Dobbiaco-Cortina 2000, dopo aver rotto due bastoncini ed essere stata costretta ad un gran recupero, Campo Imperatore 2000, Val Ridanna. Primatista mondiale delle 24h ad Andalo nel 1995, due volte nell’albo d’oro del Gran Premio Italia di Ornavasso (skiroll) che annovera i nomi prestigiosi di Vialbe e Tchepalova. Il che significa le massime espressioni del fondo mondiale, ma è stata lei a stabilire il miglior tempo. Per quanto riguarda le gare nostrane, ha vinto tre volte la classifica finale della Coppa Italia, due medaglie di bronzo agli assoluti. Nella sua ultima stagione è andata ripetutamente a punti in Coppa del Mondo. Quando non vinceva, arrivava a ridosso, e se qualcuna delle sue avversarie la staccava, non è che potesse vivere di rendita. Con la grinta che teneva, c’era sempre da aspettarsi un suo recupero, poiché non mollava mai, fino all’ultimo.

Determinazione, orgoglio, qualità che l’hanno sempre portata a farsi largo a spallate in un ambiente nel quale, malgrado la tanto conclamata ospitalità italiana, è stata spesso accolta con avversione neppure malcelata. La sua presenza in gara, insomma, non sempre faceva piacere, in quanto sconvolgeva gerarchie e rendite di posizione  e di prestigio come è capitato quando ha vinto per 3 volte la Coppa Italia o quando cercava spazio in qualche gara zonale. Paruzzi e Valbusa non erano ancora quelle che sono diventate e c’è stato un momento in cui si è avuta l’impressione che dietro Belmondo e Di Centa fosse lei la destinata a diventare la “terza forza” una volta acquisita la cittadinanza italiana. Aveva fatto registrare parametri eccezionali di massimo consumo di ossigeno dopo uno dei test che si fanno all’ospedale di Sondalo in occasione dei raduni della nazionale sul ghiacciaio dello Stelvio. Un test che aveva dimostrato che il “motore” c’era, che su di lei si poteva investire. Si trattava solo di migliorarla tecnicamente: aveva margini enormi ancora da sfruttare. Strutturalmente uguali, lei e la Belmondo, se si eccettua la statura; cilindrata tutta da valutare, ma non c’è stato il tempo né la possibilità.

Purtroppo non ha avuto modo di esprimere queste sue potenzialità come avrebbe potuto a causa della “sfiga” che ha caratterizzato la sua breve esistenza. Non c’è che questo  termine entrato ormai nell’uso comune per descrivere la maledetta sfortuna che l’ha accompagnata ad ogni passo nell’attività agonistica ma anche nella vita di tutti i giorni. Qualche esempio? In Val Formazza, nella 30 km degli assoluti, era staccata di pochi secondi da Gabriella Paruzzi, che avrebbe poi vinto gara e titolo. In discesa non ha visto una buca formata dalla caduta di una concorrente che la precedeva ed è “volata”, riportando la frattura di un polso che le ha richiesto mesi per riprendere ad allenarsi normalmente. Nell’estate 1997, mentre correva nei boschi dietro Maccagno, è stata presa di mira da un cinghiale, probabilmente una femmina che aveva la tana con i piccoli nelle vicinanze, che l’ha aggredita. Si è salvata rifugiandosi su una pianta. Quando l’animale si è allontanato, nel discendere dall’albero è caduta pesantemente. La botta al torace le ha provocato uno pneumatorace che ha richiesto un intervento chirurgico che le ha imposto una sosta forzata. Era passato neppure un mese che già riprendeva la preparazione.

A farle abbandonare defìnitivamente l’attività è stato il tumore. Se ne è accorta nell’ultimo periodo di allenamento allo Stelvio. Una brutta tosse che non l’abbandonava mai e le lastre hanno confermato una presenza anomala, quella che l’avrebbe portata alla morte. Reagiva alla prostrazione psicologica gettandosi a capofitto nello sport, che era per lei ragione di vita, convinta che la aiutasse a riprendersi. E lo stesso ha fatto quando il primo intervento ha potuto accertare la gravità del male e nei momenti di sollievo fra una cura e l’altra. Ma è stato tutto inutile. Era consapevole di dover morire e ha affrontato il suo destino come se fosse una gara. Non poteva vincere, ma non avrebbe mollato. Ogni volta era peggio: un calvario che si è protratto per più di due anni, che lei ha accuratamente annotato nel suo diario che teneva con la stessa precisione e puntualità del quaderno di allenamenti, annotandovi i suoi stati d’animo, il progresso del male, i tentativi, purtroppo vani, di resistere non appena si sentiva un po’ più in forze. Un dramma al quale hanno cercato di portare un poco di sollievo, oltre al marito e ai tanti amici dello Sci Club, Laura Bettega e Manuela Di Centa. Quasi due sorelle ancor più che amiche. La sua allenatrice con la quale aveva stabilito una profonda amicizia, e la “tigre” delle piste che le ha manifestato comprensione, affetto, vicinanza ogni volta che si trovava libera dagli innumerevoli impegni della sua vita multivariegata di membro CIO, VIP e star della TV.

L’ultimo ricordo di Manuela Di Centa

Manuela Di Centa non ha voluto mancare a quest’ultimo appuntamento. “Con Olga c’era un rapporto particolare. L’ho conosciuta giovanissima ed è nata subito la simpatia. In lei ritrovavo me stessa quando ho iniziato la carriera: passione per lo sci, per le montagne e per la natura, il piacere di far fatica, stessa determinazione, grinta, identica volontà di arrivare in alto. Io sono stata fortunata, lei no. Eppure ne aveva i mezzi. Energica come carattere, dolcissima d’animo. Impossibile non volerle bene. Abbiamo stabilito un ottimo rapporto, che è continuato nel tempo. Quando ho smesso l’attività, le ho regalato i miei sci. Erano sicuramente migliori dei suoi, le sarebbero serviti. Basta questo gesto a spiegare l’amicizia che ci univa: nessun atleta è disposto a dar via gli sci che lo hanno portato al successo. Neppure a pagarli a peso d’oro, poiché sono legati a tanti episodi meravigliosi, alle medaglie, ti ricordano i sacrifici e la fatica che hai dovuto fare per raggiungere gloria e notorietà. A lei li ho dati, senza pensarci due volte: speravo che l’aiutassero ad aprirsi la sua strada.  Il suo calvario è stato anche il mio: lei lo soffriva nel corpo, io nello spirito. Non potevo far altro che starle vicina, ma era lei che, pur sentendosi sfuggire la vita, riusciva a confortare me più di quanto io potessi fare nei suoi confronti. Mi ha dato una lezione di vita inimmaginabile”.

E’ l’ultima testimonianza che Manu può offrire di Olga Kamenskaia dopo l’estremo saluto che le ha tributato al termine della messa, sul sagrato della chiesa. Ne riportiamo le parole: “Ciao Olga, sei partita da lontano per seguire quelle che erano le tue convinzioni, i tuoi desideri …. Con il tuo animo semplice e leale hai fatto della vita una via per confrontare te stessa sia nello sport che nella vita di tutti i giorni, con grande caparbietà e semplicità. Amavi tantissimo il sole, la neve, le bellissime albe delle valli alpine come dicevi sempre: in quelle albe il sole ti regala con i suoi raggi giochi di luce e colori che ti penetrano all’interno dell’anima … Credevi nel destino, nella purezza del cuore e nell’amore …. Perché eri una dama d’onore…. Un’amica particolare: la tua amicizia andava sempre conquistata, perché l’amicizia è un legame fondamentale fatto di profonda sensibilità. Nei tuoi limpidi occhi si leggeva il segreto di un dolce angelo, di una compagna di vita, di una nuvola amica, di una figlia indipendente…. Olga, grazie per essere stata con noi e di averci dato tanto”.

E chi fosse Olka Kamenskaia lo dimostra anche il suo diario, del quale riportiamo ciò che ha scritto il 21 settembre 2000, quando già sapeva che per lei non c‘erano speranze: “Oggi, passeggiando nel cortile dell’ospedale, sotto il sole e il cielo limpido dopo un temporale notturno, ho goduto la stupenda incantevole vista del “mio amore”, il massiccio del Monte Rosa. Che sensazioni ho provato! Ho chiuso gli occhi e ho sentito un odore che per me era il profumo della neve; in brevissimo tempo ho immaginato tutto: sole, neve, pista, baite, gare, sci, fumo della cappa, legna nel camino, i guanti da fondo, lo sponsor Scame, sciolina. Tutto, insomma. Poi ho aperto gli occhi e dove sei Olga? In ospedale, e perché? Perché sono ammalata: E cosa hai: Ho … E le lacrime via a schizzi. Ma perché?

Giorgio Brusadelli
www.fondoitalia.it