De Zolt Maurilio
di
Giorgio Brusadelli
Quando
è entrato in nazionale aveva già 27 anni; quando ne è uscito 44. Nel mondo del fondo, e
non solo in quello italiano, il "piccolo grande
uomo" Maurilio De Zolt ancora oggi è quel personaggio leggendario capace di
mobilitare la sua vallata, quella del Comelico, solo se si rimettesse gli sci. Classe
1950, è entrato nel Guinnes dei primati come il fondista più anziano (44 anni) a vincere
le Olimpiadi. Per la verità di olimpionici più vecchi di lui negli sport invernali ce ne
sono stati altri tre, ma in una disciplina ben diversa, il bob, non nel fondo e
specialmente in una gara, come la staffetta, dove l'esperienza ha giustamente il suo peso
ma a contare di più sono doti come lo scatto e i cambi di ritmo che non rientrano certo
nel patrimonio di chi gli "anta" li ha già passati da un po'. A meno che non
sia un fenomeno..... E Maurilio, effettivamente, fenomeno lo è sempre stato, dall'inizio
alla fine della sua carriera agonistica e anche dopo. Nello sci come nella corsa, alla
quale non ha mai dedicato allenamenti specifici. Eppure, correndo l'ora in pista, ha
superato la distanza di km 18,750. Da amatore, a 50 anni compiuti, senza allenamento, è
stato ancora in grado di superare 17 km e mezzo. Ma c'è un altro esempio che prova come
si sia di fronte ad un atleta poliedrico. In bicicletta, in una sfida fra fondisti, con un
allenamento sommario, da Prato allo Stelvio al Passo ha impiegato meno di un'ora e mezzo
sui 30 e passa km, staccando di un paio di minuti Gigi Weiss, campione del biathlon che
andava forte anche sulle due ruote, e ancor di più Francesco Moser, che scalatore non è
mai stato ma che si stava preparando in quel periodo per uno dei tanti record effettuati
sotto la guida del prof. Conconi, che prevedevano particolari lavori di forza resistente
in salita.
Quando alla fine degli anni '60 appare sulle piste di sci, portato
da Stelio Busin, il factotum dei Vigili del fuoco di Belluno, nessuno scommetterebbe una
lira su Maurilio. Fisicamente non è certo lo stereotipo dell'atleta in generale e del
fondista in modo particolare: piccoletto, stile un po' approssimativo, saltellante,
aggressivo, si guadagna quel nomignolo di "grillo" che sarebbe apparso
ancor più appropriato dopo l'entrata in scena del passo pattinato che ha esaltato
compiutamente le sue caratteristiche tecniche ed agonistiche. Fatica a sfondare e deve
passare la trafila delle gare zonali e delle granfondo prima di farsi conoscere. I
pregiudizi sono sempre gli stessi: troppo piccolo, scia male, è pieno di difetti. Trova
un posto in una segheria e ci resta per due anni. Si allena nel poco tempo libero che gli
resta e nei fine settimana. La sua prima gara è la Coppa Casera Razzo. Tesserato per
lUnione Sportiva Val Piova di Laggio di Cadore, fa parte della
categoria juniores. Arriva quarto, che è certamente un piazzamento lusinghiero per un
neofita, che personalmente lo lascia soddisfatto ma non impressiona gli avversari e
i tecnici presenti. A credere in lui c'è solo Stelio Busin, allenatore del Centro
Federale del Comelico, che diventa il suo primo allenatore, lo inserisce nella squadra dei
Vigili del fuoco e lo avvia anche alle gare di marcia in montagna. Nel 70 Maurilio
va a Roma per il servizio di leva nel Vigili del fuoco. Viene assegnato ad Agordo e quindi
trasferito al distaccamento di Santo Stefano, a due passi da casa.
Finito il servizio di leva, cambia lavoro, mettendo a frutto il
diploma di congegnatore meccanico. Entra alla Holzer di Belluno, specializzata nella
costruzione di materiale elettromeccanico. A 24 anni si sposa con Maria Luisa, che gli
darà tre figli (Luca, Tiziana e Michela) e che avrà una parte importantissima nella sua
vita di atleta quando, rientrato nei Vigili del fuoco, potrà finalmente diventare un
professionista del fondo. Non disponendo di una gran squadra, poiché il
gruppo sportivo De Vecchi dei Vigili del fuoco di Belluno è una società
sportiva come tante, a carattere locale, nella staffetta Busin lo schiera in prima
frazione. Gioca subito la carta migliore per metterla in evidenza e far ricredere i tanti
scettici. Il tempo e l'eventuale distacco costituiscono inoltre il modo più pratico e
immediato per valutare la condizione e i progressi del suo pupillo che, senza un'attività
giovanile alle spalle, non dispone di altri termini di paragone. Per tre anni consecutivi
Maurilio vince il lancio della staffetta 4x10 km agli assoluti. Ormai si è fatto un nome,
è già considerato uno dei migliori fondisti italiani, ma i pregiudizi restano.
Troppo vecchio per entrare in nazionale, sostengono in FISI; come contentino lo
inseriscono nella squadra P, quella dei probabili. Come spesso è accaduto in
quel triste periodo, non si vedeva al di là del proprio naso. Avevano sottomano il
potenziale campione e lo snobbavano
. Eppure in ogni occasione il
"pompiere" di Presenaio di San Pietro di Cadore, al di là dei buoni risultati
ottenuti, dimostrava grinta, carattere e una voglia di vincere che avrebbero dovuto
far passare in secondo piano le carenze stilistiche. Solo Busin, e Dario DIncal in
un secondo tempo, hanno capito che Maurilio era nato vincente e lo avrebbe dimostrato,
costruendo il suo personaggio e i suoi risultati su una filosofia dello sport e della vita
che la dice lunga sul suo carattere. A chi un giorno gli chiese se non si sentisse in
stato di inferiorità di fronte a campioni carismatici e atleti grandi (anche fisicamente)
e possenti come Mieto, Svan o Wassberg, rispose un po' piccato: " Sono sicuramente
più grossi di me, ma anche loro hanno due palle come le ho io. Quindi possiamo
discuterla". E lo avrebbe dimostrato ripetutamente affrontandoli senza soggezione
alcuna alle Olimpiadi, ai Mondiali e in Coppa del Mondo, prendendo ma anche restituendo
batoste e guadagnandosi ogni volta, tranne a Lahti, almeno una medaglia.
La più esaltante sicuramente quella d'oro della staffetta delle
Olimpiadi 1994, a Lillehammer, di fronte a decine di migliaia di spettatori, quando aveva
quasi 44 anni e solo pensare di schierarlo in questa gara sembrava una pazzia. Una carta
che Vanoi si sentì di giocare, dopo il 5° posto nella 30 km di apertura, contro la
logica e contro la tattica che consigliavano uno schieramento diverso che quantomeno il
bronzo lo garantiva. Pur con tutti i rischi del caso, questa volta si voleva puntare
all'oro. Per questo lo convinse a starsene calmo, a rinunciare alle altre gare per puntare
tutto sulla staffetta. E gli affidò proprio il lancio, in tecnica classica, convinto che
anche nel passo alternato Maurilio sarebbe stato in grado di battersi alla pari con i
grandi specialisti. Grinta, carattere, combattività e quel gran cuore che era solito
buttare nella mischia avrebbero ovviato alle carenze di stile e
contribuito ad aumentare la frequenza dei suoi passetti in modo che reggessero le lunghe e
armoniose scivolate di Sivertsen e Myllilae. E così è arrivata la più bella medaglia
del fondo italiano, perché De Zolt ha dato il cambio staccato di soli 10", un nulla
per Albarello, grande alternista, che ha provveduto ben presto a colmare il divario
replicando con cattiveria alle schermaglie e ai trucchetti di Ulvang e Kirvesniemi. Il
gioco a quel punto era fatto perché Vanzetta non ha mai fallito una staffetta e si è
ripetuto nello scontro con Alsgaard e Rasanen, mentre Fauner, in caso di arrivo allo
sprint, era una garanzia. E lo ha dimostrato quando si è trovato solo con Daehlie dopo
aver perso Isometsa su una salita. Con il più grande fondista di sempre ha giocato come
fa il gatto con il topo.
Quel lancio di Lillehammer, in pratica, ha riportato De Zolt agli
albori della carriera, quando per lui la prima frazione era d'obbligo. Ma che non fosse
solo un atleta "da lancio" lo dimostrò agli assoluti di Capracotta, nel 1977,
dove dominò la 50 km. A questo punto non si potevano più accampare né scuse né
remore: il direttore agonistico Azittà, che gli aveva promesso di metterlo in squadra in
caso di vittoria, gli aprì le porte della nazionale, allenata in quel periodo da Tonino
Biondini e Dario D'Incal. E fu quest'ultimo, da quel momento, a prendersi cura di Maurilio
con la stessa passione e la stessa fiducia del suo primo allenatore Busin, e a dargli una
mano ogni volta che volevano estrometterlo dalla squadra ritenendolo ormai troppo vecchio.
Gli è sempre stato vicino e gli ha
insegnato ad allenarsi da solo. Fiducia ampiamente ripagata perché l'innesto di De Zolt
ha contributo a far uscire il fondo italiano da una crisi che si trascinava da una decina
d'anni e che sembrava irreversibile. Una marcia lenta ma progressiva verso il podio. Due
Mondiali (Lahti 1978 e Oslo 1982) e due Olimpiadi (Lake Placid 1980 e Seraievo 1984)
di assestamento e di conquista di posizioni sempre più dignitose e finalmente le prime
medaglie.
Arrivano (bronzo nella 15 km e argento nella 50 km e nella
staffetta) nel 1985 a Seefeld, in unMondiale un po' anomalo dal punto di vista della
tecnica perché è il momento in cui il passo pattinato comincia a soppiantare
l'alternato. Non c'è ancora una precisa distinzione fra le due tecniche: ognuno scia come
preferisce. Passo alternato con la sciolina di tenuta, il mezzo pattinato (tecnicamente
definito scivolata spinta pattinata che si esegue con una sola gamba) introdotto
dall'americano Koch nelle gare di Coppa e dal finnico Siitonen nelle granfondo con
sciolinatura ridotta, o addirittura il pattinato completo ma con la normale attrezzatura
da tecnica classica: sci da 210 cm senza sciolina di tenuta ma con paraffine di
scorrimento su tutta la lunghezza, bastoncini della lunghezza usuale e le solite scarpe
scollate sulla caviglia. In questa improvvisazione i nostri fondisti ci sguazzano,
perché, dopo gli svizzeri, erano stati i primi ad allenarsi con la nuova tecnica,
aborrita invece dai nordici. Ritenevano che venisse ad inquinare i canoni
tradizionali del fondo.
De Zolt, che inizialmente ha avuto grossi problemi con la nuova
tecnica, è comunque il primo azzurro ad andare in medaglia: 3° nella 15 km, con Vanzetta
4° a soli 6" da lui. Un trionfo per la squadra italiana: i tecnici e il direttore
agonistico Azittà piangono per la felicità. Il bronzo li ricompensa dopo anni di
amarezze e umiliazioni. Con la staffetta un altro salto avanti: è argento. Maurilio, in
terza frazione, è scatenato. Fa il battistrada di un gruppetto di 4 concorrenti e sulla
prima salita stacca lo svizzero Ambuhl e quindi raggiunge e pianta lo svedese Eriksson,
che era partito con un vantaggio di 30 ma lo aveva
progressivamente perso. Dopo lo svedese molla anche Kirvesniemi. Gli resiste solo il
norvegese Holte, che però è costretto a cedere sul duro strappo che precede il finale in
discesa, si butta verso il traguardo e lancia Ploner con 8 di vantaggio.
ControAunli, però, non c'è niente da fare: è il migliore dei nordici nella nuova
tecnica. E' già tanto che Ploner riesca a resistere al ritorno di Svan. Il capolavoro
nella 50 km, con un altra medaglia d'argento, ad un minuto da Svan, sotto una fitta
nevicata, in quellatmosfera che ha sempre esaltato Maurilio. Respira aria di casa
perché mezzo paese, parroco in testa, è venuto ad incitarlo. Sventolano le bandiere e le
bottiglie passano di mano in mano. La gara è appassionante perché a fasi alterne vede il
predominio di Svan e Sachnov nella prima metà, con De Zolt vicinissimo. Il sovietico
crolla verso il 30° km, Aunli sorpassa momentaneamente Maurilio di 11, ma ne perde
una ventina nel contrattacco su una lunga salita. Nel finale Maurilio è il solo a tenere
il passo di Svan, al quale cede solo 9 in 10 km, ma ne recupera altri 39 ad Aunli,
assicurandosi così la medaglia dargento. Il Cigno chiude in 2 h
1049 la più veloce 50 km della storia del fondo fino a quel momento, su una
neve che non è certo adatta a far velocità; De Zolt è a 103.
Sono medaglie che rilanciano il fondo
italiano e la nazionale, dove con luscita di scena dellallenatore finlandese
Vilje Sadehariu dopo la magra di Saraievo, si respira un aria muova. C'è ancora un
finlandese, ma è Jarmo Punkkinen, che fortunatamente ha imparato subito litaliano,
a differenza del suo predecessore che doveva essere assistitito dallinterprete, e
con lui si può discutere. Fra laltro è molto competente anche per quanto riguarda
le nuove metodologie di allenamento, e si integra perfettamente con il prof. Conconi che,
per De Zolt, prima che lo scienziato che collabora con la squadra, è soprattutto un amico
nel quale crede ciecamente. Secondo solo a DIncal. Con Sadehariu, invece, De
Zolt si era scontrato fin dal primo approccio. Fra loro non cè mai stato feeling.
Per un montanaro abituato al vino e alla grappa, che ha nella carne ai ferri e nella
cacciagione il suo piatto preferito e che si cuoce gli spaghetti in camera quando non sono
compresi nel menù, eliminare ogni tipo di alcolico, mangiare pane nero, pasteggiare con
il latte e ridurre la carne sostituendola con le patate come Sadehariu pretendeva dalla
squadra era peggio di un'eresia. Roba da far venire il voltastomaco. Un insulto alla
secolare tradizione del Cadore, dove la cucina può essere povera ma saporita e dove il
tempo libero lo si passa al bar davanti ad un bicchiere di frizzantino. Il tempo di
prendere atto del diktat del nuovo allenatore, con il quale non cè possibilità di
dialogo, e lui era già in camera a fare le valigie e alla fine a cedere è l'integralista
Sadehariu che cerca un compromesso.
Da quel momento De Zolt
sarebbe stato libero di mangiare e bere quel che preferisce, tanto più che i risultati
non ne risentono. Neppure quando ci scappa qualche bicchiere di troppo. Chi scrive ricorda
ancora, agli assoluti di Sappada del 1986, l'antivigilia della 50 km. La neve si misurava
a metri e il paese era praticamente isolato poiché due slavine avevano bloccato entrambi
gli accessi da S. Stefano e dalla Carnia.
Ci si arrivava solo a piedi e a proprio rischio e pericolo. La 50
km era in programma il martedì e la domenica De Zolt l'aveva passata girando da un bar
all'altro, con il suo amico più stretto e con tutti i brindisi di circostanza offerti
dagli innumerevoli tifosi. Lui a Sappada era di casa. Già alticcio a mezzogiorno, su quel
ritmo avrebbe continuato fino a sera. Neppure 36 ore dopo era in pista, con la grinta di
sempre, davanti ad almeno 15 mila spettatori. Per venire a vederlo erano state chiuse le
scuole e le fabbriche di tutta la valle. Un tifo da stadio di calcio. I tifosi per De Zolt
sono sempre stati importantissimi, e non soltanto perché gli danno la carica.
E il mio pubblico che mi aiuta a continuare, a superare le difficoltà, a
farmi dimenticare letà che ho sulla carta di identità, ha sempre detto. Sono uno
stimolo per andare avanti, perché ti dà una gran soddisfazione vedere la gente che ti
incita e che ti è vicina in Italia come allestero. Essere benvoluti è sempre
bello, direi meraviglioso.
In una splendida giornata di sole
che metteva finalmente fine alle nevicate, sulla salita che gli sarebbe stata intitolata e
che è stata poi eliminata nell'attuale anello perché ritenuta troppo massacrante, ha
letteralmente distrutto la corsa e gli avversari.
L'hanno finita in pochi; per prendere i distacchi non serviva il
cronometro, bastava una comune sveglia. Il De Zolt di allora lo si è rivisto nella 50 km
che, a Oberstdorf, nel 1987, chiude un Mondiale già annichilito dall'imprevisto
trionfo di Albarello nella 15 km davanti a Wassberg. Gli svedesi in questa occasione erano
obiettivamente i più forti. Primo (Wassberg) e 3° posto (Maybaeck) nella 30 km, primi
nella staffetta dove l'Italia arriva quinta, ma nelle altre gare si trovano a fare i conti
con gli azzurri. Quello di De Zolt è un trionfo che si annuncia fin dal primo controllo:
fa una corsa di testa dal principio alla fine, senza la minima flessione, neppure quando
Wassberg gli si riporta addosso. Pare impossibile, ma Maurilio riesce ad aumentare la
cadenza e con un finale eccezionale lo ributta a 22" . Per lui, come per Nones nel
1968, è la consacrazione definitiva: è entrato di diritto nell'olimpo dei nordici e dei
sovietici. Questa medaglia premia dieci anni di duro lavoro, di allenamenti di
un'intensità tale da fiaccare chiunque non avesse avuto le stesse motivazioni, la voglia
di migliorarsi sempre, di dimostrare che a fare la differenza non sempre sono lo stile e
la statura, ma certi attributi che consentono, in ogni occasione, di sfidare se stessi e
il tempo che incalza ed essere sempre vincenti.
Loro di Oberstdorf è solo
unaltra tappa di una carriera che qualcuno vorrebbe fargli chiudere, ritenendolo
ormai troppo vecchio. C'è ancora la medaglia di bronzo nella 50 km in Val di Fiemme nel
1991, dietro Mogren e Svan che sarebbe di per se stessa il più degno coronamento per un
atleta già quarantenne, ma De Zolt continua. Altri successi nei campionati assoluti, fino
a totalizzare complessivamente 19 titoli. Tutti in gare individuali: quattro 15 km,
cinque 30 km, e ben dieci 50 km. La chiusura è con il botto della staffetta di
Lillehammer che premia una vita di sacrifici. Ha vinto più di tutti. Se fosse stato stato
capace di comportarsi in modo più tattico e attendista, avrebbe potuto pareggiare anche
le 10 vittorie consecutive di Maria Canins alla Marcialonga, mentre si è dovuto
"accontentare" di iscrivere solo per quattro volte il suo nome dell'albo
d'oro della massima granfondo italiana. Nel 1986 (allo sprint su Hallenbarter), nel 1987
(ancora sprint, ma a pari merito con lo svedese Blomqvist, anche se Maurilio resta
convinto di averlo preceduto), nel 1991, di nuovo davanti a Blomqvist, stavolta staccato,
e nel 1992 piantando tutti sulla salita della cascata che per scarsità di neve ha preso
il posto di quella di Castello. Nelle occasioni in cui qualcuno lo ha preceduto sul
traguardo di Cavalese, a batterlo è stato il suo carattere combattivo prima ancora che
l'avversario. Sempre impegnato nelle posizioni di testa invece che starsene tranquillo nel
gruppo per scatenarsi poi sulla salita finale. Quella del temporeggiatore è una tattica
che fa a pugni col suo carattere combattivo, e alla fine anche lomino di acciaio è
costretto a pagare, con l'eccessivo dispendio di energie, una condotta di gara
scriteriata. Inutile cercare di farlo ragionare: gli applausi se li vuole guadagnare,
certi calcoli non fanno per lui. 
Per quanto ci tenesse in modo particolare, ha invece fallito ogni
attacco alla Vasaloppet. Ha debuttato nel 1974, quando era ancora un amatore, e ci è
andato, dividendosi le spese del gasolio e del traghetto, con Ivo Andrich e due
ufficiali loco amici partendo da Belluno con un pulmino carico di entusiasmo, di
razioni K e di qualche damigiana di vino. Una gara da incosciente, per uno
pressoché senza allenamento e senza esperienza in una prova in cui lesperienza è
fondamentale e che richiede una preparazione specifica e non limprovvisazione, tanto
che grandissimi campioni ci hanno sbattuto il muso. In testa per 50 km e poi il cedimento progressivo per crampi e per sfinimento. E
comunque arrivato 40°. E andato vicino alla vittoria solo nel 1986, alla terza
esperienza, ma una maledetta scivolata su una placca di ghiaccio lo ha messo a terra nel
momento più bello. Ha tenuto sotto controllo la gara fino al finale, quando è riuscito
ad avvantaggiarsi con tre svedesi, ma la caduta a mezzo chilometro dal traguardo ha fatto
sfumare il sogno coltivato da tempo, mentre Bengt Hassis otteneva il secondo successo
consecutivo.
Non è cambiato neppure dopo il pensionamento. Ha lasciato i Vigili
del fuoco dopo 30 anni di servizio effettivo e smentendo certe voci che lo vorrebbero male
in salute, continua a coltivare le sue grandi passioni di sempre, la caccia e la pesca, a
fare sport attivo e ad elevato livello, a indossare qualche pettorale. Da amatore, ma
sempre in gara con se stesso e con gli altri. L'inverno senza neve gli ha impedito di far
fondo come vorrebbe, diversamente lo si sarebbe trovato impegnato, se non ancora agli
assoluti come nel 2001 a Sappada, sicuramente in qualcuna delle gran fondo che
lo hanno visto protagonista tante volte. L'appuntamento è solamente rinviato di una
stagione.
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